Comandare l’amore
Piero Stefani (fonte..: www.IlRegno.it)
Es 22,20-26; Sal 18 (17); 1Ts 1,5-10; Mt 22,34-40
Un detto popolare afferma che «al cuor non si comanda». Come può essere comandata la realtà che ci sospinge a compiere ogni opera buona?
Il breve brano del Vangelo di questa domenica ruota attorno a due domande: una esplicita e una implicita. La prima si pone apertamente la questione di quale sia il grande comandamento presente nella Legge (si noti, non c’è comparativo: non si dice «più grande» – mentre in Marco, 12,28, c’è «primo»). La seconda è collegata al problema fatto sorgere dalla risposta di Gesù. Essa indica nell’amore di Dio (Dt 6,4-5) e del prossimo (Lv 19,18) i due comandamenti da cui dipendono tutta la Legge e i Profeti (le due principali sezioni della Bibbia ebraica). La centralità dei due grandi precetti riservati all’amore dischiude la questione di che cosa significhi comandare l’amore.
Un detto popolare afferma che «al cuor non si comanda». L’amore qui è pensato come un moto spontaneo e improvviso. È chiaro che si ha in mente più l’innamoramento che l’amore. Nell’accezione corrente, il cuore (a differenza di quanto avviene nella Bibbia, dove si gravita in un ambito che la cultura moderna accosterebbe piuttosto alla coscienza e all’intelligenza) è diventato un simbolo declinato in modo tutto sentimentale. Questa accezione è estranea al nostro abito. Tuttavia, anche se innalziamo il discorso, il problema di comandare l’amore rimane aperto. Pensiamo alla celebre frase di Agostino: «Ama e fa’ ciò che vuoi; sia che tu taccia, taci per amore; sia che tu parli, parla per amore; sia che tu corregga, correggi per amore; sia che perdoni, perdona per amore; sia in te la radice dell’amore, poiché da questa radice non può procedere se non il bene» (Commento alla Prima lettera di Giovanni, 7,7-8). L’amore è la linfa vitale che dalle profondità del terreno alimenta tutto il resto. Come può essere comandata la realtà che ci sospinge a compiere ogni opera buona? Più che essere comandato l’amore comanda.
Una risposta – anche questa indiretta – alla perplessità la si trova nella prima lettura (Es 22,20-26). Nel brano dell’Esodo si prescrivono azioni specifiche da compiere o da non compiere: non molestare lo straniero, non maltrattare la vedova e l’orfano, presta denaro senza comportarti da usuraio. Il comandamento entra nella sfera operativa. È prescritto di restituire il mantello preso in prestito, non di provare affetto nei confronti di colui che te lo ha dato in pegno. A venir comandato è un retto modo di agire nei confronti del prossimo. Non tutto si risolve nella dimensione del comando, ma nulla è in grado di sostituirla.
Un significativo apporto a questa interpretazione lo si trae riferendosi al testo ebraico del precetto dell’amore del prossimo (Lv 19,18). Esso suona così: ‘ahavtà le-re‛ekhà kamòkha. Occorre rilevare che qui il verbo «amare» (‘ahavàh) regge il dativo e non – come avviene di norma – l’accusativo; lo si potrebbe perciò tradurre in modo appropriato con un «porta amore a…». Questa resa colloca il comandamento in una sfera operativa. Compi atti che vanno a favore del tuo prossimo. Il comandamento prescrive questo comportamento; il resto verrà dopo e proprio a partire da quell’agire.
E l’amore di Dio? È mai immaginabile compiere opere in favore di Colui da cui tutto dipende? La risposta non si discosta dalla precedente. Amare Dio comporta innanzitutto mettere in pratica la sua parola e quindi compiere la sua volontà. Pure in italiano l’etimo di obbedire deriva da udire. L’«Ascolta Israele» (citato per esteso in Mc 12,29-30) è lo scrigno che contiene il precetto dell’amore di Dio (Dt 6,4-5). Anch’esso si colloca in una sfera operativa. Non è tutto, ma tutto comincia da lì. Il resto verrà.