Prepararsi alla Liturgia – II domenica di Pasqua

Udire, vedere, toccare

 Piero Stefani  (fonte..: www.IlRegno.it)

At 4,32-35; Sal 118 (117); 1Gv 5,1-6; Gv 20,19-31

Tommaso non presta ascolto alla parola degli altri apostoli («Abbiamo visto il Signore», Gv 20,25); vuole affidarsi agli occhi e al tatto e non agli orecchi. Lo fa perché al centro del suo interesse ci sono le piaghe. Le ferite si vedono e si toccano ma non parlano.

Tommaso chiama in causa i sensi: desidera vedere i segni dei chiodi, si propone di toccare con il dito la piaga del costato. Egli mira ad avere la garanzia che il Risorto non ha deposto la carne; vuole esser certo che egli sia proprio il Verbo venuto ad abitare in mezzo a noi (cf. Gv 1,14). A lui non è sufficiente ascoltare la parola, neppure gli basta il semplice vedere: la vista deve sfociare nel tatto.

Il Signore porta i segni della sua passione anche dopo essere entrato nella gloria: il passato va redento, non cancellato. L’apostolo perviene a questo esito percorrendo vie tortuose e incerte. Così facendo, ne sia o meno consapevole, Tommaso pone comunque l’accento su una verità posta al cuore della fede: il Risorto è il Crocifisso. La sua esclamazione finale: «Mio Signore e mio Dio», comunica questa verità: il nostro Dio è piagato. Giovanni, a chiusura della scena della crocifissione, aveva scritto: «Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto» (Gv 19,37; Zc 12,10).

La successione: ascolto, vista, tatto è evocata all’inizio della Prima lettera di Giovanni: «Quello che era da principio, quello che noi abbiamo udito, (…) quello che contemplammo e che le nostre mani toccarono del Verbo della vita (…) quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunciamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi» (1Gv 1,1-3). Udito, vista, tatto sono all’origine dell’annuncio; tuttavia alla fine l’arco si restringe, ci si concentra infatti sull’invisibile e intoccabile parola.

La fede procede di generazione in generazione affidandosi all’udito; essa, come dice Paolo, nasce dall’ascolto («fides ex auditu», Rm 10,17). L’esistenza del credente ha però anche a che fare con la vista e il tatto. Là dove non ci si guarda negli occhi e quando mancano gli abbracci, la vita della comunità dei credenti non è piena. La fede nasce dall’udito, ma si accresce attraverso la vista e il tatto.

L’episodio di Tommaso si conclude con la parola di Gesù che proclama beati coloro che non hanno visto e hanno creduto (Gv 20,29). Qui la beatitudine è legata a un particolare tipo di non vedere, o forse, paradossalmente, di vedere.

Il discepolo amato alla mattina di Pasqua «vide e credette» (Gv 20,8). Ma cosa vide? La tomba vuota, i teli e il sudario, non il corpo e le piaghe del Risorto. Una sola altra volta nel quarto Vangelo torna la qualifica di «beato». Si è dunque invitati a collegare i due passi e a renderli complementari. L’altra occasione è costituita dalla lavanda dei piedi. Terminato il suo atto di servizio a favore dei propri discepoli Gesù afferma: «Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come ho fatto a voi (…) Sapendo queste cose siete beati se le mettete in pratica» (Gv 13,17).

Si è beati quando si crede senza vedere, si è beati quando si vede e ci si tocca lavandosi i piedi a vicenda. Proprio questi due atti costituiscono le polarità della fede, che inizia con l’ascolto e si concretizza con un servizio reciproco legato alla centralità dei corpi. La beatitudine comporta tanto il credere senza vedere, quanto il vedere e il toccare tipici dell’amore vicendevole: «Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede» (1Gv 4,20).

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