Prepararsi alla Liturgia – XXIX domenica del tempo ordinario

Rendete a Dio quel che è di Dio

 Piero Stefani  (fonte..: www.IlRegno.it)

Is 45,1.4-6; Sal 96 (95); 1Ts 1,1-5; Mt 22,15-21

Vi sono casi in cui un detto, staccatosi dal proprio nido, viaggia autonomamente per il mondo. In questo novero rientra anche il «date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio». Il passo oggi è percepito, a vasto raggio, come emblema della laicità della sfera politica e della reciproca autonomia dei poteri della Chiesa e dello Stato. Non fu sempre così. Questo significato è infatti apparso incontrovertibile solo in un tempo in cui il potere religioso aveva già largamente perduto, e non per volontà propria, la capacità di controllare – o quanto meno incidere a fondo – su quello politico.

Il contesto evangelico del «date a Cesare» indica che il senso originario del passo non ha nulla a che fare con la divisione dei poteri. Gesù fu messo alla prova per vedere da che parte si schierasse in relazione a un problema che spaccava in due il mondo giudaico del tempo, vale a dire se era lecito o meno pagare, con una moneta che aveva impressa l’immagine di Cesare, il tributo all’autorità imperiale. In quelle circostanze egli doveva rispondere con nettezza, senza però cadere nel tranello di schierarsi in modo manifesto per l’una o per l’altra opzione. Era sfidato a compiere una specie di quadratura del cerchio. Questa volta farisei ed erodiani erano sicuri di averlo messo nel sacco.

Nelle parole di Gesù il discorso sul fondamento dei poteri religioso e politico non ha alcuno spazio. La chiave che ci permette di entrare nella comprensione dell’episodio si trova nel verbo presente nella risposta. In essa non si parla affatto di «dare» a Cesare, bensì di «rendere» o meglio di «dare indietro», «restituire» (apodidōmi). La moneta del tributo è identificata dall’immagine di Cesare, per questo è sua e gli va restituita. Se la si trattiene ci si compromette, si rimane attaccati a un’effigie (almeno potenzialmente idolatrica) che non è quella di Dio. Nella replica c’è un aspetto ironico volto a sottolineare come gli interlocutori fossero ben familiari con quel denaro che avevano con sé («”mostratemi la moneta del tributo”. Ed essi gli presentarono un denaro»; Mt 22,19), mentre Gesù non ce l’ha e non lo tocca affatto. II nullatenente non è soggetto a tributi.

Nella risposta di Gesù l’accento gravita soprattutto sulla seconda parte; quello che davvero conta è rendere a Dio quel che è di Dio. In questo caso non ci sono nullatenenti; tutti siamo soggetti alla restituzione. Che cosa bisogna dare indietro a Dio? A dircelo è l’antropologia biblica, secondo la quale è l’uomo stesso a essere creato a immagine di Dio (Gen 1,27; 5,1-3). La moneta siamo noi. Siamo chiamati perciò a restituire a Dio noi stessi amandolo con tutto il cuore, l’anima e la mente (Mt 22,37; Dt 6,5).

Il riferimento a Lui non è chiamato né a fondare, né a delimitare alcun potere, sia esso spirituale o temporale. Tutto è di Dio. Restituire a Cesare quel che è suo è un atto esteriore, l’immagine dell’imperatore è incisa su un pezzo di metallo; restituire a Dio quanto gli è proprio è una realtà tutta diversa, ora l’immagine è impressa in noi stessi. Lo scopo principale del brano sta nell’indicare la differenza dei modi in cui, nei due casi, si dà indietro. Gesù vuole porre in rilievo che la maniera in cui Cesare esercita il potere è completamente diversa dal modo in cui Dio manifesta la propria non coercitiva autorità. Lo Stato esige le tasse, dopo di che ti lascia libero di fare, nell’ambito della legge, quello che vuoi; Dio ti chiede di amarlo e, se liberamente rispondi di sì, ti afferra tutto.

lineaDiv1

Lascia un commento