SEGUIRE CRISTO OPPURE LIMITARSI A SOPRAVVIVERE
Fabio Rosini (fonte: www.famigliacristiana.it)
(Autorizzati alla pubblicazione dalla Direzione di Famiglia Cristiana)
«Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo».
Luca 14,25-33
Il Vangelo di questa settimana è uno dei più radicali di tutta la letteratura biblica. Se lo prendiamo come richiesta etica, o cerchiamo di farne una “buona cosa” da realizzare per sentirci a posto, è assurda e indigeribile. Bisogna partire da un’altra prospettiva.
Persino nella più recente edulcorata traduzione resta difficile capire la più assurda delle frasi: «Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami […] perfino la propria vita, non può essere mio discepolo.» Quel «perfino» non c’è per caso.
Cosa vuol dire amare più Cristo della propria vita? Il testo originale ha “odiare”, perfino la propria vita. E cioè?
La parola “vita” in questo testo traduce il termine psyché – espressione evocativa per noi moderni che indica la vita umana, con la sua sofisticata coscienza e non è solo semplice bios – che è la vita in senso biologico – ma è diversa dalla zoé che nei Vangeli viene usata per indicare la vita piena, quella che solo Dio può dare.
Ed è qui il punto. Non esiste solo la vita biologica-psichica, ossia quella che riceviamo dai nostri genitori;c’è anche la vita secondo il Cielo, che è quella eterna, che in greco non significa “lunghissima” ma “priva di limiti” – la vita piena che Cristo ci dona.
Questa vita, paradossalmente, noi la desideriamo profondamente ma non ce la possiamo dare da soli. Questa esistenza si riceve, non si raggiunge con sforzi umani. Ma siamo fatti per riceverla. Questo però implica che perdiamo la nostra, di vita, per avere quella di Cristo. Tanto che san Paolo dice: «Non vivo più io, ma Cristo vive in me» (Gal 2,20).
Infatti il Battesimo rappresenta il passaggio dalla vita biologico-psichica a quella dei Figli di Dio, che è diversa. Ma questa, da parte di Dio, è offerta, non imposta. Siamo nati alla vita umana senza che nessuno ci abbia chiesto il permesso, ma la pienezza della vita non arriva senza il nostro consenso autentico.
PERDERE LA VITA. C’è il rischio di avere chiese piene di uomini e donne che sono bravissime persone di buona volontà ma che non hanno mai perso la loro vita.
Perché per perderla deve venire a noia. Deve venire nausea per un’esistenza passata a riempire le insufficienze della psiche con compensazioni affettive e oggetti rassicuranti. Ci si deve stufare di vivere di cose piccole, di soldini da risparmiare, di divertimenti infantili, di rivalità lavorative, di vittorie inconsistenti.
Ma se uno si accontenta della mediocrità e delle sicurezze di questo mondo può continuare ad ascoltare Cristo e trovarlo interessante o commovente, ma non lo segue, non ce la fa a essere suo discepolo, perché prende la vita dagli affetti e dagli oggetti e deve avere un’economia accorta, non può perdere la stima altrui né i beni.
Non si tratta di essere buoni o cattivi, ma di accontentarsi oppure volere di più. Aprirsi a qualcosa che valga veramente e ci porta a seguire Cristo, oppure esistere per sopravvivere.
Il cristianesimo non è per superficiali. Ma i superficiali non esistono. Esistono uomini che fanno i superficiali. Ma nessuno lo è.
05 settembre 2019
(Autorizzati alla pubblicazione dalla Direzione di Famiglia Cristiana)