Prepararsi alla Liturgia – Domenica delle Palme

«Senza luce»

 Piero Stefani  (fonte..: www.IlRegno.it)

Is 50,4-7; Sal 22 (21); Fil 2,6-11; Mc 14,1-15,47

Pier Paolo Pasolini lesse casualmente ad Assisi il Vangelo di Matteo trovato sul comodino della propria stanza. Quella esperienza costituì il primo impulso che lo condusse a creare uno dei suoi film più celebri, Il Vangelo secondo Matteo (1964). Non si trattò di una conversione alla fede; l’incontro con le pagine evangeliche fu invece l’occasione per dare maggiore consistenza a un’intuizione poetica da lui avuta più di vent’anni prima nella Domenica uliva, componimento centrale del ciclo Poesie a Casarsa (1942).

In esso, con riferimento alla domenica delle Palme, si legge questo verso: «Tu clàmis, Crist, e senze lum» («tu chiami, Cristo, e senza luce»). Secondo lo stesso Pasolini queste parole avrebbero potuto costituire la più efficace epigrafe del suo film. L’imprevisto accostarsi al testo evangelico irrobustisce e innerva un pensiero precedente e lo avvolge in una diversa e più consapevole oscurità.

La liturgia della domenica che precede quella di Pasqua è contraddistinta da una forte ambivalenza: essa passa repentinamente dalla scena dell’ingresso messianico a Gerusalemme (cf. Mc 11,1-10) alla lettura della Passione (cf. Mc 14,1-15,47). Nessun’altra domenica vive in sé un mutamento così brusco, evidenziato anche dal mutato colore della pianeta: rosso nella prima parte, viola nella seconda.

La processione degli ulivi sembra prolungarsi senza soluzione di continuità fino all’orto che da quella pianta prende nome; anzi non si arresta neppure lì e, passo dopo passo, conduce fino al Calvario. Quella delle Palme è l’unica domenica dell’anno che propone una lunga lettura dedicata alla Passione.

Il giorno che ricorda settimanalmente la risurrezione si trasforma, per una volta all’anno, in una specie di Venerdì santo anticipato. Pasolini era nel giusto quando parlava di una chiamata avvenuta senza luce. La salvezza non si compie nei mantelli stesi per terra e nei rami agitati in alto. Essa si realizza passando attraverso le tenebre del Calvario; non nell’effimero trionfo, ma nel reale abbandono.

Gesù entra a Gerusalemme circondato da una folla che tiene in mano festanti rami di alberi frondosi, poi sale al tempio e osserva ogni cosa, infine ridiscende a Betania (cf. Mc 11,1). Il giorno dopo torna di nuovo a Gerusalemme.

Lungo il percorso avviene un episodio sconcertante. Il cammino questa volta non è contrassegnato da folle esultanti, bensì da un’oscura, violenta maledizione scagliata da Gesù contro un fico ricco di foglie ma privo di frutti«perché – precisa Marco – (…) non era la stagione dei fichi» (Mc 11,13). Il giorno dopo, l’elemento vegetale, da segno di trionfo, diventa oggetto di maledizione. Il fico si seccò.

L’unico miracolo compiuto da Gesù non per risanare bensì per distruggere deve avere un senso. Esso scaturisce dall’«innocenza» della pianta. Anche la croce è chiamata albero. Pure Gesù, come il fico, non ha colpe. La sventura ora si abbatte sugli innocenti. Sarebbe somma ingiustizia, se ciò non fosse un passaggio verso un esito salvifico. Ma lo si saprà solo la mattina di Pasqua; tutto, prima, fu «senze lum». Nei giorni della passione il grido che invoca salvezza (è questo il significato etimologico di «osanna», Sal 118,25-26) lascia il posto a quello che dice il più grande degli abbandoni: «Eloì, Eloì, lama sabachtani?» (Mc 15,34; Sal 22,2).

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