Nemo propheta in patria
Piero Stefani (fonte..: www.IlRegno.it)
Ez 2,2-5; Sal 123 (122); 2Cor 12,7-10; Mc 6,1-6
Verso l’inizio della sua missione Gesù, ci racconta Marco, salì su un monte e «chiamò a sé quelli che voleva ed essi andarono con lui». Così si costituirono i Dodici (cf. Mc 3,14). Prima c’erano già state le chiamate improvvise di Simone e Andrea, di Giacomo e Giovanni (cf. Mc 1,16-20) e di Levi (cf. Mc 2,13-14).
Per questa via si costituisce un gruppo itinerante privo di ogni legame parentale. La predicazione di Gesù inizia nelle periferiche strade di Galilea a opera di un gruppo di persone senza fissa dimora. Perché il «buon annuncio» arrivasse agli orecchi delle persone occorreva girare; allora si era infatti in un’epoca in cui la voce umana non era nelle condizioni di essere trasmessa da lontano. A differenza di oggi, in quei tempi la tecnica non riusciva a far incontrare la sedentarietà con la distanza. La bocca e gli orecchi avevano bisogno delle gambe: «Come sono belli sui monti i piedi del messaggero che annuncia la pace» (Is 52,7), o il Regno.
Nessuno, neppure Gesù in quanto uomo, sceglie il luogo dove nascere. I genitori, i parenti, la città o il villaggio in cui si viene alla luce sono sottratti alla volontà di ciascuno di noi. La scelta comincia a operare quando si esce. All’inizio della storia biblica ad Abramo fu comandato da Dio di uscire dalla sua terra, dal suo parentado, dalla casa di suo padre (cf. Gen 12,1). La vocazione implica un andare, un uscire (per impiegare una parola in questi anni ripetuta al punto da rischiare di essere contraddittoriamente ripiegata su se stessa).
Se questa è la dinamica di fondo, si comprende perché ogni ritorno al luogo natale, in senso fisico e affettivo, comporti una dinamica differente da quella della missione e della fede. Il detto divenuto proverbiale «nemo propheta in patria» (cf. Mc 6,4) attesta questa tensione che esiste tra l’inserimento nella famiglia e nella società e una vita posta tutta all’insegna della fede. Il commento di Gesù in questa luce è significativo: «E si meravigliava della loro incredulità (apistia)» (Mc 6,6). Poco prima e non lontano da lì, rivolto alla donna guarita dal flusso di sangue, Gesù aveva esclamato: «La tua fede ti ha salvata» (Mc 5,34); a Nazaret era impensabile che un’espressione simile uscisse dalla sua bocca.
La persona di cui conosciamo l’origine, l’ambiente familiare, il lavoro è già inquadrata; in questi casi ogni «uscita» è colta come una stravaganza, specie se essa avviene in seguito a una chiamata che prelude a un’emarginazione sociale: «Non è costui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda, di Simone?» (Mc 6,3). Quel che maggiormente importa in questo versetto non è la qualifica di «fratelli e sorelle» vista in relazione ai dogmi mariani, quanto conta è la presenza di un nucleo paesano-familiare che lega una persona in modo vincolante alla sua origine.
Questo modo impedisce di dar credito a una missione diretta verso altri e contraddistinta dall’annuncio della «buona novella». Il grumo d’incomprensione legato a Nazaret dischiude il senso del versetto posto subito dopo (e che la liturgia avrebbe fatto bene a riportare): «Gesù percorreva i villaggi intorno insegnando. Chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli a due a due e dava loro il potere sugli spiriti impuri» (Mc 6,7). Parlare di «uscita» non è arduo; uscire per davvero comporta invece sempre la lacerazione del distacco.