Prepararsi alla Liturgia – V domenica di Pasqua

La feconda purezza dei tralci

 Piero Stefani  (fonte..: www.IlRegno.it)

At 9,26-31; Sal 22 (21); 1Gv 3,18-24; Gv 15,1-8

Una tipica immagine biblica presenta Israele come la «vigna del Signore» (cf. Is 5,1-7; 27,2-5; Ger 2,2; 5,10; 6,9; Os 10,1 ecc.). Giovanni nel suo Vangelo ricorre invece a questa figura per presentare le relazioni che legano Gesù ai suoi discepoli. La qualifica, introdotta da un autorevole «Io sono», prospetta subito anche un rapporto tra il Figlio «vite vera» e il Padre «agricoltore» (Gv 15,1). Gesù dunque applica a sé quanto in precedenza era stato riservato a Israele. Tra le due immagini ci sono somiglianze e differenze. In entrambi i casi la vite può dare o non dare frutti; tuttavia lo specifico di Giovanni è la presenza o di un’intima compenetrazione o di una netta distinzione tra vite e tralci. Affermazione paradossale, come lo è tutto quanto si pone nella logica dell’incarnazione.

Rispetto alla vite non c’è più come in antico un giudizio complessivo su una pianta o tutta buona o tutta cattiva. Quel che avviene ora è che, per quanto tutti i tralci facciano parte della vite, non tutti producono frutti. Gesù è la vite, ma non tutti i tralci sono ricchi di grappoli (cf. Gv 15,2). L’aspetto più drammatico dell’analogia sta nel fatto che esistono tralci che, pur essendo in Cristo, sono improduttivi. In termini attuali si direbbe che non basta un’appartenenza nominale per essere fecondi nella fede. La prospettiva si era già palesata all’interno delle prime comunità. Torna alla mente quanto scritto da Paolo: «Quindi chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere» (Gv 10,12). O, per rifarci a un oscuro aspetto della tradizione giovannea, si presenteranno «molti anticristi (…) essi sono usciti da noi, ma non sono dei nostri» (1Gv 2,18).

Per essere produttivi occorre che avvenga un duplice intimo incontro. In esso non solo i tralci sono contenuti nella vite, ma anche quest’ultima, in virtù di un capovolgimento che è discesa e donazione, viene a propria volta contenuta nei tralci: «Rimanete in me e io in voi (…) Chi rimane in me e io in lui, porta molto frutto» (Gv 15,4-5). Nel «discorso eucaristico» del sesto capitolo, Giovanni aveva già proposto un andamento simile: «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui» (Gv 6,56). Il cuore del discorso sta proprio in questa duplice compenetrazione; secondo il senso profondo dell’incarnazione non solo il minore è contenuto nel maggiore, ma anche il più grande è contenuto nel più piccolo.

Anche il tralcio produttivo è sottoposto a un taglio. Per essere produttivi c’è un prezzo da pagare. Questo atto suscita fecondità: «Ogni tralcio che in me porta frutto» il Padre «lo pota perché porti più frutto. Voi siete già puri a causa della parola che vi ho annunciato» (Gv 15,2).

Per comprendere il testo il termine «puri» è decisivo. Esso infatti rimanda alla «lavanda dei piedi» descritta dal quarto Vangelo due capitoli prima. In risposta alla protesta di Pietro, che afferma che non si lascerà mai lavare i piedi, Gesù afferma che senza quel lavacro egli «non avrà parte con lui», allora il discepolo, dichiara «“non solo i miei piedi, ma anche le mani e il capo”. Soggiunse, Gesù: “Chi ha fatto il bagno, non ha bisogno di lavarsi se non i piedi ed è tutto puro; e voi siete puri, ma non tutti. Sapeva infatti chi lo tradiva; per questo disse: “Non tutti siete puri”» (Gv 13,10).

Qui è già detto tutto: Giuda è il tralcio che, pur essendo nella vite, non produce ed è tagliato via. Dal canto suo l’essere potati comporta conformarsi all’azione di Gesù, che lava i piedi ai propri discepoli: «Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi» (Gv 13,14). Siamo in lui ed egli è noi quando operiamo come lui lavandoci i piedi l’un l’altro.

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