La croce e la vita
Piero Stefani (fonte..: www.IlRegno.it)
2Cr 36,14-16.19-23; Sal 137 (136); Ef 2,4-10; Gv 3,14-21
Giovanni, nel suo Vangelo, propone una lettura tipologica del serpente di bronzo innalzato nel deserto durante la peregrinazione esodica: «E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna» (Gv 3,14; cf. Nm 21,4-9). Il serpente che guarisce dai morsi mortali diviene figura del Figlio che dona la vita e lo fa proprio quando è sulla croce: crederlo è un fondamento della fede.
A metà navata della milanese basilica di Sant’Ambrogio vi è a sinistra su una colonna la raffigurazione bronzea di un serpente e a destra, in modo simmetrico, una croce greca. Quest’ultima è priva di ogni figura umana, non vi è quindi rappresentato il crocifisso. Nonostante la mancanza della figura umana, il riferimento al passo di Giovanni è comunque evidente.
Il Nuovo Testamento parla sia di croce sia, più raramente, di Gesù Cristo crocifisso (cf. 1Cor 2,2.8), mentre in esso non compare mai l’aggettivo sostantivato: il crocifisso. Ciò avviene non solo perché, com’è ovvio, a quel tempo non esisteva l’oggetto, sia esso dipinto o scolpito, ma anche perché quel sostantivo stenta a comunicare la totalità del messaggio pasquale.
L’accento posto sullo «strumento» più che sulla persona può sconcertare. Perché nella liturgia del Venerdì santo si parla di adorazione della croce, e non già di quella di Gesù crocifisso? Perché c’è una presenza tanto eminente del legno e un accento tanto sobrio posto sulla persona che rese la croce simbolo efficace di salvezza universale? Per quale ragione la liturgia cattolica applica all’albero («O Croce di nostra salvezza, albero tanto glorioso, un altro non vi è nella selva, di rami e di fronde a te uguale») quanto è proprio di chi vi stese sopra le braccia? La scelta vuole comunicarci una realtà pasquale: la croce per Gesù fu un passaggio, non la parola ultima. Non vi è nulla di più decisivo e nulla di più assoluto della croce, ma ciò, per paradosso, ha luogo proprio perché l’ultima parola non spetta alla morte.
Nella croce «tutto è compiuto» (Gv 19,30), eppure essa non è il compimento di tutto: se Cristo non fosse risorto, la nostra fede sarebbe vana (cf. 1Cor 15,14). Le rappresentazioni del crocifisso, a differenza del simbolo della croce, trovano difficoltà a esprimere pienamente entrambi questi volti del crocifisso-risorto (ai quali, peraltro, alludono le icone orientali).
Vi è anche un altro motivo per riferirsi alla croce: esso è legato alla sequela di Gesù Cristo. In questo periodo dell’anno questo cammino si fa più intenso. Esso è dicibile con la parola «croce», non con il termine «crocifisso». La croce di Gesù Cristo, evento unico e privo di paragoni, diviene nei Vangeli, per così dire, moltiplicabile. Gesù, rivolgendosi a chi lo vuole seguire, afferma che ognuno deve prendere la propria croce (cf. ad esempio Lc 9,23). Ciò non avviene perché la croce si identifichi semplicemente con il patire e il soffrire presenti nell’esistenza di ogni creatura. La nostra croce non coincide con la sofferenza che marchia le nostre vite. Il dolore è più universale e accomunante (non dico più vero) della croce. La sofferenza riguarda, in senso letterale, tutti i viventi semplicemente a causa del loro esistere.
La croce assunta nella dimensione della sequela attiene invece al dolore che nasce entro un cammino compiuto in risposta a una chiamata. Esso sorge allorché si rinnega sé stessi al fine di adempiere al compito cui si è chiamati. La croce – più che il crocifisso – dice la pasqua attraverso la quale dobbiamo passare. La croce è il sigillo di una vita presa nell’abbraccio della fede.