Confermarsi nella fede
Piero Stefani (fonte..: www.IlRegno.it)
At 2,14.22-33; Sal 15 (16); 1Pt 1,17-21; Lc 24,13-35
Sperare è verbo raro nei Vangeli. L’uso in Luca è, in sostanza, profano (cf. Lc 6,34; 23,8), mentre nell’episodio dei due discepoli che s’incamminano verso Emmaus è detto al passato: «Noi speravamo che fosse colui che avrebbe liberato Israele» (Lc 24,21). I verbi delle tre virtù teologali, se coniugati al passato, dicono un rammarico, una delusione, un tempo chiusosi senza essere completato: «amavo, credevo, speravo… ora non più…».
Per Cleopa e il suo compagno sono bastati tre giorni. La loro fu delusione precoce, ma essa è diventata anche figura di un tempo fattosi lungo due millenni, in cui Gesù risorto ci cammina a fianco nella storia, anche se ben poco attorno a noi sembra attestarne in modo incontrovertibile la presenza: speravamo in un mondo rappacificato in cui lo spirito del Risorto mutasse il cuore degli esseri umani… Come allora, pure ora il Risorto ci è vicino e non lo riconosciamo. Anche oggi può essere scambiato per un semplice pellegrino che si sta allontanando da Gerusalemme.
Il nostro episodio passa da una presenza senza riconoscimento a una presenza che sta tutta nel riconoscimento, non nel possesso. Gli occhi dei discepoli si erano appena aperti quando Gesù scelse di sottrarsi alla loro vista (cf. Lc 24,31). Il Risorto è con noi, ma non è nostro. In uno dei suoi celebri quadri dedicati alla cena di Emmaus, Caravaggio è stato in grado di mostrare di spalle l’apertura di occhi di un discepolo. Lo ha fatto dipingendo non le pupille bensì l’aggrapparsi delle mani al bracciolo, per questa via egli ci comunica la caduta dagli occhi delle squame interiori. Di fronte alla figura del discepolo è però rappresentato anche il placido non vedere dell’oste; per lui tutto continua a scorrere come prima: Gesù è un cliente tra gli altri, quella è una cena come tutte le altre. Il fatto stesso di riconoscere il Risorto là dove altri non lo scorgono giustifica il sottrarsi alla vista da parte di Gesù che ci nega il possesso e rifugge dall’evidenza per consegnarci alla speranza.
I due discepoli chiesero al pellegrino di fermarsi perché già calava la sera; tuttavia, appena lo riconobbero, si alzarono e in quella stesso momento si volsero indietro. Ora, dopo averlo riconosciuto, possono camminare anche di notte. Quando giungono nella città trovano gli Undici già radunati che dicono loro quanto anche i due avevano in animo di annunciare: il Signore è risorto (cf. Lc 24,34). Nella comunità della fede ci si comunica l’un l’altro quanto già si sa. Non è annuncio: è conferma nel credere. Non è vano camminare nel buio per comunicare una notizia già risaputa.
Nelle nostre comunità non siamo annunciatori, siamo coloro che hanno bisogno di essere riconfermati reciprocamente nella fede. Quale sia il modo lo svela la fine stessa del brano evangelico: «Ed essi narrarono loro quanto era avvenuto sulla via e in che modo lo riconobbero nella frazione del pane» (Lc 24,35). «Via» e «frazione del pane». Il ricordo, fattosi testimonianza di una presenza, trasforma in via l’errare di coloro che si allontanavano delusi. È grazia comprendere, dopo, che il nostro vagare sfiduciato sulle strade della vita, è stato, nella fede, tramutato in via. «Lo spezzare il pane». Qui Luca allude alla vita successiva della comunità dei credenti. Gesù stesso spezza il pane; egli, così facendo, anticipa il gesto che sarebbe avvenuto nella prima comunità di Gerusalemme (cf. At 2,42.44; At 20,7). Per tutti i credenti Gesù Cristo, sottratto ai nostri occhi, è luogo di una conferma reciproca nella fede che si fa speranza.