Giovedì santo: Gesù, pane spezzato, offerto come alimento
Tra i tanti nomi con cui è stato chiamata l’Eucaristia, quello che meglio esprime il senso e la ricchezza del sacramento è lo spezzar del pane.
I discepoli di Emmaus riconoscono il Signore “nello spezzare il pane” (Lc 24,35), la comunità di Gerusalemme partecipa assiduamente alla catechesi degli apostoli e “allo spezzare del pane”, a Troade ci si riuniva “il primo giorno della settimana a spezzare il pane” (At 20,7).
Come mai i primi cristiani erano così affezionati a questa espressione? Quali ricordi, quali emozioni risvegliava in loro?
Il pasto dei pii israeliti iniziava sempre con una benedizione sul pane. Il capofamiglia lo prendeva tra le mani, lo spezzava e lo offriva ai commensali.
Non poteva essere mangiato prima di essere spezzato e condiviso con tutti i presenti.
Fin da bambino Gesù ha osservato Giuseppe compiere devotamente, ogni giorno, questo rito sacro ed egli stesso, divenuto adulto, lo ha ripetuto più volte: a Nazaret, quando suo padre è venuto a mancare e, durante la vita pubblica, ovunque fosse invitato a mensa.
Una sera, a Gerusalemme, lo ha rivestito di un significato nuovo.
Durante l’ultima cena prese del pane, rese grazie, lo spezzò e lo diede ai discepoli dicendo: Questo sono io. Prendete, mangiate!.
Parole arcane, enigmatiche che i discepoli compresero solo dopo la Pasqua.
Al termine della sua “giornata”, il Maestro aveva riassunto in quel gesto tutta la sua storia, tutta la sua vita donata.
Non aveva offerto qualcosa, ma se stesso. Aveva consegnato la sua persona in alimento. Ogni briciola della sua esistenza era stata donata per saziare la fame dell’uomo: fame di Dio e della sua parola, fame di senso della vita, di felicità, di amore.
Commosso davanti alle “pecore senza pastore” si era seduto a insegnare molte cose: aveva spezzato il pane della Parola (Mc 6,33-34). A chi aveva fame di perdono aveva offerto i segni della tenerezza di Dio.
A Gerico nessuno immaginava che Zaccheo avesse fame. Nessuno si era dimostrato sensibile alla sua richiesta di comprensione e di accoglienza; nessuno tranne Gesù che vide, nascosto tra le foglie di un sicomòro, colui che si vergognava di essere visto. Entrò nella sua casa e lo saziò di amore e di gioia.
Sulla mensa eucaristica, durante ogni celebrazione, Gesù ripresenta – nel segno del pane – tutta la sua vita e chiede di essere mangiato.
Nel mondo gli uomini “si mangiano”. Lottano per sopraffarsi e asservire, “si divorano” per accaparrarsi i beni e dominare. Ha successo chi, in questa competizione per il cibo, si dimostra il più forte.
Gesù ha rivoluzionato questo modo preumano di relazionarsi.
Invece di “mangiare” gli altri, di lottare per la conquista dei regni di questo mondo – come gli aveva suggerito il maligno – si è fatto mangiare.
È da questo dono di se stesso come alimento che ha avuto inizio l’umanità nuova.
Il gesto di porre su una mensa, di fronte a una persona affamata, una pagnotta e una coppa di vino è un chiaro invito non a guardare o a contemplare, ma a sedersi, prendere, mangiare e bere.
Sull’altare, il pane eucaristico è una proposta di vita: mangiarlo significa unirsi a Gesù, accettare di divenire con lui pane e offrirsi in alimento a chiunque abbia fame.
“Noi non possiamo stare senza la cena del Signore”. “Sì, sono andata all’assemblea e ho celebrato la cena del Signore con i miei fratelli, perché sono cristiana”.
Pronunciate dai martiri di Abitine, nell’Africa proconsolare, queste parole rivelano la passione con cui, fin dai primi secoli, i cristiani hanno partecipato allo spezzar del pane domenicale. Era per loro un’esigenza irrinunciabile. Avevano compreso che quello era il segno distintivo dei discepoli del Signore Gesù.
di: Fernando Armellini
Fonte: Settimananews.it
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