Prepararsi alla Liturgia – XXVII domenica del tempo ordinario

L’accusa è diretta ai capi

 Piero Stefani  (fonte..: www.IlRegno.it)

Is 5,1-7; Sal 80 (79); Fil 4,6-9; Mt 21,33-43

Per quanto il Vangelo di oggi si presenti come una parabola (cf. Mt 21,33), quella della vigna è in realtà un’allegoria. Sembra una distinzione solo specialistica, ma non è così.

Nell’uno e nell’altro caso si tratta di una modalità espressiva nella quale ci sono due livelli di significato: il primo letterale, il secondo allusivo. Tuttavia è solo nell’allegoria che bisogna decodificare ogni particolare, nella parabola il senso è invece ricavato dall’insieme. Nel nostro caso è fuori discussione che i «servi» rappresentino i profeti e gli inviati di Dio, dal canto suo il figlio raffigura Gesù. In questo contesto svolge un ruolo decisivo anche l’annotazione: «Da ultimo mandò loro il proprio figlio dicendo: “Avranno rispetto per mio figlio”» (Mt 21,37). Gesù non è stato inviato nel mondo per essere ucciso. L’allegoria ci dice che il figlio rappresenta l’ultimo tentativo del Padre per chiamare a conversione i contadini. Gesù è venuto per annunciare il regno di Dio e la sua vendemmia, a condurlo a morte è stato il rifiuto dei leader del popolo. In tal modo egli è associato agli inviati e ai profeti che operarono in Israele. Sarà la misericordia di Dio a trasformare la sua morte in via di salvezza.

L’allegoria dei contadini (il testo evangelico alla lettera non parla di vignaioli) è una riscrittura del canto della vigna di Isaia (cf. 5,1-7, prima lettura). La vigna rappresenta il popolo d’Israele. L’accusa mossa dal Signore alla vigna è di aver prodotto acini acerbi in luogo della buona uva. La loro asprezza sta nella violenza: «Egli aspettava giustizia ed ecco spargimento di sangue, attendeva rettitudine ed ecco grida di oppressi» (Is 5,7). Un elemento che accomuna la vigna profetica a quella del Vangelo è la presenza del sangue versato e dell’ingiustizia patita. In entrambe è assente la gioia condivisa della vendemmia.

La riscrittura evangelica introduce però delle radicali differenze rispetto al testo di Isaia. La prima è che la vigna (come le seminagioni e i campi del c. 13 di Matteo) raffigura il «regno di Dio» (Mt 21,43) e non già, in senso stretto, il popolo ebraico; la seconda è che la vigna produce sempre uva buona, non esistono più acini acerbi. L’accusa perciò non è rivolta alle viti, ma ai contadini. La vigna dà frutti, i coltivatori li sottraggono però al padrone.

Forzando il testo non pochi commentatori compiono un implicito spostamento tra la vigna e i contadini. La colpa diviene perciò generale: gli ebrei prima hanno respinto i profeti e poi hanno persino messo a morte Gesù. Da questo approccio deriva tutto il resto. Dalla responsabilità collettiva per la morte di Gesù, consegue che la vigna sarà data ad altri. In definitiva parecchie interpretazioni continuano a conformarsi alle linee guida prospettate dalla patristica, la quale con Giovanni Crisostomo sostiene che la conclusione della parabola indica la chiamata dei gentili e la caduta dei giudei e con Girolamo afferma che la vigna è affidata «a noi», cioè ai cristiani, a condizione che rendiamo a Dio i frutti a suo tempo. Tuttavia l’allegoria afferma che la vigna ha sempre prodotto, la colpa grava perciò tutta dalla parte dei contadini, vale a dire dei capi del popolo.

La parabola è rivolta contro i leader mentre la gente invece è implicitamente elogiata: «Udite queste parole, i capi del popolo e i farisei capirono che parlava di loro. Cercavano di catturarlo, ma ebbero paura della folla perché lo considerava un profeta» (Mt 21,45-46) (versetti improvvidamente esclusi dall’odierno Vangelo). Ogni «attualizzazione» dell’allegoria deve tener fermo che l’accusa è rivolta solo ai contadini. La vigna, ieri come oggi, produce grappoli abbondanti. Anche quando non si giunge agli estremi del versamento di sangue, gli accusati continuano a essere coloro che non danno ascolto al sensus fidelium, impedendo che i frutti della fede giungano a Dio. La tentazione più vera dei capi del popolo – e ciò vale tanto per Israele quanto per la Chiesa – è di considerare sé stessi detentori della vigna («avremo noi la sua eredità», Mt 21,38) e non già suoi fedeli custodi.

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